Edoardo Sanguineti Dantista

DA: Sanguineti Ideologia e Linguaggio, a cura di Luigi Giordano (Atti del Convegno Internazionale Sanguineti : Ideologia e Linguaggio, svoltosi a Salerno 16/17/18 febbraio 1989), Metafora Edizioni, Salerno 1991, Federico Sanguineti

EDOARDO SANGUINETI DANTISTA

Per sincera e coerente fedeltà al programma offerto dall’attuale circostanza, che vuole appunto dichiararsi ed essere non celebrativa ma di studio, converrà prendere in tutta spassionata tranquillità le mosse dalla più ovvia e quasi banale constatazione che chiunque, anche solo in virtù di una sua qualche mera deformazione professionale, intenda con sguardo d’insieme rivolgere l’attenzione all’assai vasto e articolato panorama di indagini e letture dantesche offerto dal massimo caposcuola della cosiddetta neoavanguardia italiana, considerandolo insomma nel suo stesso lineare e preciso, e — in ultima analisi – organico sviluppo, non soltanto difficilmente potrebbe rinunciare ad ammettere di avere a che fare con un caso singolare davvero, al tutto unico nel pur variegato orizzonte di una dantologia che si rivela ormai come sempre più internazionale, ma in realtà dovrà altresì riconoscere, ad un tempo, di trovarsi di fronte ad una situazione che si presenta e manifesta, fin dall’inizio, anzi in verità proprio alla medesima sua radice, come assolutamente paradossale, e tale da ingenerare persino, se così è lecito dire, quasi una sorta di inevitabile senso di straordinario e, almeno ad un primissimo sguardo, insuperabile imbarazzo: lasciando per un momento allora in disparte un paio di sporadici, occasionali senza dubbio, di fatto dunque marginali interventi recenti (pensiamo a una coppia infatti di brevi lavori come la relazione su Canzone sacra e canzone profana, proposta al convegno ravennate dell’86, dedicato, com’è noto, a La musica nel tempo di Dante, i cui atti sono peraltro disponibili appena dallo scorso anno, e a una ancora purtroppo inedita lettura del XXXIII canto dell‘Inferno), e senza indugio puntando lo sguardo viceversa, com’è più giusto, sugli estremi momenti decisivi di questo assai laborioso, tanto elaborato, così compatto percorso esegetico, che si muove tuttavia progredendo con pacifica sicurezza, articolandosi con ben largo respiro lungo l’arco pressoché esatto di un duplice decennio, che va – attenendosi alle date almeno non di composizione ma di edizione dei diversi lavori – dall’impegnativo e fin monumentale (362 pagine più venti di introduzione), certo decisivo Interpretazione di Malebolge, e dall’agile ancorché non meno significativo Tre studi danteschi, entrambe opere datate 1961, attraverso quel capitale punto a tutt’oggi definitivo approdo esegetico nonché di massimo e sintetico impegno in ordine a un compendioso sforzo interpretativo, che rimane Il realismo di Dante – giungendo in tal modo, felice complice il pretesto di un centenario, a oltrepassare di un soffio appena la metà esatta degli anni Sessanta -, fino alla non ampia davvero, epperò densa e problematica interessantissima introduzione premessa a un celebre volumetto divulgativo di Leonìd Batkin, Dante e la società italiana del trecento, uscito nel 1979, ecco che la paradossale unicità, di cui da parte nostra si vuole oggi tener conto della posizione fatta propria dall’illustre poeta e studioso riuscì a risultare evidente all’istante qualora si sia risoluti nel prestare attenzione all’adozione, da un lato, di un energico e vigoroso punto di partenza critico-polemico, che con quasi inaudito coraggio si annuncia in modo fervido e appassionato, esplicito e deliberato, con la più vivace e legittima animosità come anti-crociano, per una anti-lirica lettura in direzione narrativa della Commedia – benché in chiave, si badi bene, di un’aperta e ancora tutta scoperta, subito dichiarata fenomenologia (e già ciò avviene a cominciare dalla prefazione ai giovanili studi sui canti XVIII-XXX della prima canzone, vale a dire da quello che in effetti risulta essere in assoluto come il primo lavoro, originato quale tesi di laurea presentata all’Università di Torino, relatore Giovanni Getto) —, e dall’impavido tentativo, d’altro canto, di un temperato e virile invece, lucido quanto spregiudicato approdo materialistico-storico (a iniziare proprio da Il realismo di Dante testè ricordato), che tuttavia — pur conservando con forza e anzi addirittura ribadendo, se possibile con ancora più ampia e concentrata energia, quella fondamentale prospettiva anti-idealistica – vorrebbe al tempo stesso esibirsi in ogni modo come fedele in pieno ai criteri ideologici e alle premesse assunte in origine, pertanto rinunciando, in altri termini, a una qualsivoglia esplicita, necessaria, sostanziale e definitiva resa dei conti con l’iniziale metodo, niente affatto marxista, bensì di marca fenomenologica, apertis verbis proclamato in partenza.

Come comunque crediamo non sarà tuttavia difficile comprendere, anche solo voler additare adesso le basi storico-sociali che hanno reso possibile in ultima istanza una siffatta problematica soluzione, in quanto esigerebbe se non altro una attentissima ricerca complessiva sull’intera produzione letteraria e saggistica dello studioso — il che andrebbe ben al di là, s’intende, del puro e semplice problema di un determinato modo di leggere Dante – rimane compito che per il momento non potrà che esorbitare dall’ambito, che qui si vuole limitato e ristretto, delle presenti considerazioni: senonché in quale guisa, come interprete di Dante e della Commedia, lo straordinario capofila e insuperabile teorico dell’avanguardia poetica italiana non manchi di proporsi di far fronte alla inconfessata si, ma oggettiva aporia, è questione che occorrerà in concreto comunque affrontare, alla luce di una sia pur rapidissima analisi, ancorché non senza rilevare e sottolineare ancora, quasi a ulteriore benché ormai marginale premessa – ed ultima nostra constatazione di partenza –, che l’esplicita ottica fenomenologica non può che essa stessa stupire, ove si pensi che fin dal 1960 l’autore di Purgatorio de l’Inferno numero 2 ha inteso definirsi, secondo che suona quel confidenziale neologismo coniato da Italo Calvino, come «ben ‘lukacsciato’». Più in generale però, Lukács a parte, ciò che infine meraviglierà ancor più è che tanto nell’assunzione di un’iniziale prospettiva anti-idealistica, quanto nel successivo e fino ad oggi conclusivo tentativo di soluzione materialistico-storica, il nome stesso di Gramsci, che verrebbe pure ad offrirsi in modo spontaneo e immediato quale precursore di una giusta linea esegetica, appaia come destinato sempre a restare assente del tutto dalle pagine di argomento dantesco, comprese le recentissime, quelle edite e inedite. E diciamolo fra parentesi, non soltanto — almeno per un lunghissimo tratto di tempo (fino agli anni ’70) – da quelle dantesche. Ma nel liberare la proposta interpretativa di una lettura narrativa della Commedia da ogni fondazione fenomenologica, tenendo conto appunto del comune disegno anti-idealistico e del convergente tentativo di un approdo materialistico-storico, sarà proprio un confronto fra l’esegesi offerta dall’ autore di Interpretazione di Malebolge e quella suggerita invece nei Quaderni del carcere a costituire non soltanto un capitolo significativo della più recente storia della critica dantesca, bensì – ciò che naturalmente è assai più importante — soprattutto conditio sine qua non per una rilettura dell’opera di Dante in chiave marxista. Fra l’altro recano a ciò pieno conforto le parole conclusive del saggio introduttivo premesso a Dante e la società italiana del trecento: «Soltanto alla luce del materialismo storico», si legge, «è possibile saldare la proposta ideologica di Dante al suo contegno linguistico, il suo sogno utopico al suo realismo rappresentativo». Ma venendo allora una buona volta in medias res, nel momento in cui si sia assodata davvero – secondo quanto ci si augura debba da parte nostra essere ormai chiaro e pacifico — e in tal modo altresì garantita del tutto, non foss’altro che come primo traguardo e punto di partenza irrinunciabili, l’assoluta quanto radicale impossibilità dell’abbandono di quella che in ogni caso si rivela, quantunque ancora in termini generali ed astratti, come la sola ottica corretta, adottabile nei riguardi della Commedia, vale a dire la lettura narrativa, che infatti per sua stessa natura – riteniamo non sia inutile ribadirlo — nasce quale primaria definitiva risposta, indispensabile in antidoto ad ogni vieta tentazione e desueta tradizione, sia essa crociana o postcrociana, di lirica antologizzazione del romanzo dantesco (di volta in volta operata e condotta secondo quanto è adesso ben noto, per aperta violenza al testo, in modi sia mistificati che mistificanti, in nome da un lato di malintesi e irreali eterni valori umani, dall’altro in virtù di una irricevibile in quanto altrettanto metastorica nozione di poesia), potrà dunque finalmente essere in esclusiva sulle modalità di siffatta inoppugnabile angolatura.

Per un’ulteriore e semmai più precisa e conseguente messa a fuoco dell’anti-idealistico punto di vista esegetico, che al presente si dovrà in concreto riaprire e rinnovare il dibattito, di necessità limitando però il discorso a minime questioni, ancorché solo in apparenza marginali, circoscrivendo cioè ogni possibile e fin necessaria divergenza nell’ambito di problemi relativi a un’area determinatissima e tuttavia decisiva di Malebolge, quella dei canti XXVI e XXVII dell’ Inferno, il cosiddetto dittico della famosa ottava bolgia, se non altro in quanto è lì che appunto si colloca il capitale scoglio di Ulisse, incognita e al tempo stesso chiave di volta di qualsivoglia maniera di intendere ideologia e linguaggio di Dante, e proprio per questo (si pensi al repertorio bibliografico di Anthony Cassell che per il periodo che va dal 1800 al 1981 annovera addirittura un numero superiore ai trecento contributi) da sempre il più sondato terreno di ogni critica riflessione, e sul quale in effetti non a caso si ritornerà di nuovo a meditare in Il realismo di Dante.

Sarà a partire comunque dal «lombardo» del canto di Guido da Montefeltro («udimmo dire: O tu a cu’ io drizzo /  la voce e che parlavi mo lombardo, / dicendo: «Istra ten va, più non t’adizzo»), che converrà intanto, muovendo al momento una prima obiezione, rilevare in primis come l’ottica fenomenologica, nella misura esatta in cui venga adottata con ancora consequenziale rigore, in virtù dell’indole medesima del proprio intrinseco formalismo, si riveli come direttamente responsabile del modo in cui l’autore di Interpretazione di Malebolge viene a trovarsi costretto a liquidare come estraneo al testo della Commedia, nei preciso momento in cui è la pagina stessa ad imporlo con perentoria evidenza, proprio quel nesso fra dato linguistico o comunque espressivo – cioè appunto linguaggio. — da un lato, e dato ideologico dall’altro, su cui avrà invece occasione di insistere nei saggi successivi, benché non certo in maniera particolare in quelli di argomento dantesco (unica eccezione: la splendida glossa a Inferno V, 136 in Il realismo di Dante), fino a farne un giorno, a partire dal ’65, col volume Ideologia e linguaggio, il manifesto definitivo del proprio impegno critico-metodologico in ordine a ogni questione di natura letteraria. A riprova di ciò non occorrerà far altro che rileggere, con posata e pacata attenzione, alla pagina 262, la seguente chiosa offerta al verso ventesimo del XXVII capitolo dell‘Inferno, ove appunto si afferma, persino in termini generali, come al dato linguistico, si cita alla lettera, o non vuole propriamente corrispondere alcun substrato, osiamo la parola, ideologico», ma che viceversa tale dato emergerebbe «di volta in volta, ove emerga, nella Commedia, con un limitatissimo, occasionale significato strumentale, ancorché capace di assumere, per “adaequatio’ rettorica e stilistica, di volta in volta appunto, un suo specifico rilievo espressivo». Col che è liquidato una volta per tutte, dalla prospettiva di Interpretazione di Malebolge, quel nesso di ideologia e linguaggio che risulta invece essenziale alla narratività stessa del romanzo dantesco, vale a dire ai suoi contenuti storico-sociali, ma che può essere colto evidentemente solo andando al di là e procedendo oltre l’ottica fenomenologica, per cui gioverà ricordare in margine la straordinaria fecondità offerta a riguardo da certe pionieristiche indagini più recenti, e pensiamo in particolare ai lavori di Joan Ferrante — per noi tanto più significativi in quanto l’autrice non è per nulla sospetta di marxismo — sull’atteggiamento del poeta verso il commercio, sul suo trattamento della moneta, e sulla capitalissima presenza del nesso moneta. linguaggio lungo l’intero arco della Commedia.

Potrà allora essere alla luce fra l’altro di siffatti studi, cogliendo pertanto l’esatta posizione ideologica di Dante, che all’interno del poema si presenta in effetti fin dall’inizio come poeta-mercante, che diverrà verificabile altresì in concreto, proprio nel suo primo classico manifestarsi, quella famosissima omologia fra struttura romanzesca e struttura dello scambio che era pure, come qualcuno si ricorderà, uno dei temi più cari alla sociologia di Lucien Goldmann. Ma se questo resta discorso da riprendere in più riposata occasione, è perché conviene al momento ritornare invece ad Ulisse, muovendo ormai a limine la nostra seconda obiezione, questa volta però in relazione, tanto per cominciare, ai versi 19 e ss. del capitolo XXVI dell’Inferno («Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio» ecc.) che l’autore di Interpretazione di Malebolge, pur in astratto individuandone un qualche carattere di specifica «dichiarazione etica», vorrebbe ricondurre semplicemente nell’ambito di un «’topos’ ben determinato del narrato infernale», per finire in tal modo col lasciare in ombra anche il più elementare dato di fatto, cioè a dire che in questo luogo il poeta viene a parlare — non in termini psicologici, ben intenso, bensì appunto morali di una sua propria esplicita tentazione, dal momento che ora non di una generica «paura» si tratta, bensì in effetti di un manifesto, fin conclamato e anzi quasi singolarissimo dolore: per cui volendo, fra i numerosissimi proposti, l’unico puntuale rinvio legittimo rimarrà quello offerto a Inferno XVI, 12 («Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri»).

Si domanda venia infine per aver voluto insistere su una questione che potrà magari apparire di second’ordine, ma in realtà  — tramite un esempio pratico — l’apparente digressione era richiesta al fine di mostrare come i problemi di contenuto non possano che di necessità di sfuggire ai rigori dell’analisi fenomenologica, la cui fondamentale caratteristica consiste — teste Lukács — nell’opporre la coscienza dell’individuo isolato al preteso caos delle cose e degli uomini, compiendo un’inconsapevole astrazione da ogni elemento sociale. Restiamo invece senza dubbio d’accordo, non sarà certo faticoso comprenderlo, su Ulisse come «figura di opposizione, di lucida opposizione» (o, come si dirà in Il realismo di Dante: «il doppio, in negativo, di Dante medesimo»), poiché – in prospettiva appunto anti-idealistica, facendo nostra pertanto l’indicazione di una lettura anti-lirica della Commedia — si è naturalmente in toto ben disposti ad abbracciare l’assai persuasiva e documentata tesi secondo cui «Ulisse non è insomma emblema del male fantasticato umanesimo dantesco, ma emblema, per contro, della radicale condanna del poeta». È questa una conclusione davvero, ancora oggi, che occorrerà ribadire e sottoscrivere senza ambagi, fermo restando tuttavia che rimane sul contenuto della condanna che risulta viceversa opportuno indugiare a discutere, giacché la paradossale soluzione che viene di conseguenza esibita – secondo cui il biasimo del poeta sarebbe rivolto infatti contro «ogni aspirazione che, con parola seriore ed efficace, noi diremmo appunto umanistica» —, unita insieme all’ulteriore ma purtroppo ancor più generica sottolineatura di un «fermo colore medievale», nonché persino di una «religiosa presenza» che qui dominerebbe «tragicamente suprema, la pagina», potranno magari fino a un certo punto suonare sì — non siamo affatto restii a comprenderlo —, di un sicuro e pronto effetto nella pur giustificata e legittima polemica con Fubini, ma dal momento che non giungono in alcun modo a toccare quello che in realtà è il vero nocciolo della questione, fin nella migliore delle ipotesi non potranno che condurre ad aprire una interminabile diatriba di parole. Cosa sono infatti quell’umanesimo e quest’anti-umanesimo? è necessario domandare allora. Ma occorre soprattutto altresì indagare – giacché non certo di un Kierkegaard, poniamo, si tratta, bensì è l’Alighieri giust’appunto qui in causa — che mai stia lì a significare quella religiosità che si pretenderebbe come «tragicamente suprema». Sarebbe d’obbligo però ritornare intanto a verificare come nell’ottica del metodo fenomenologico sia di nuovo il contenuto stesso a rimanere comunque un problema irrisolto, senonché a questo punto a nessuno potrà sfuggire come entrambe le interpretazioni, sia quella romantico-idealista, che quella fenomenologica, al di là di ogni pur vivacissima antinomia, vengano per loro stessa natura a convergere su una questione sostanziale, vale a dire nel trascurare del tutto come inessenziale e quindi neppure degno di una seria considerazione, proprio quel contenuto storico-sociale che è viceversa intrinseco alla narratività dantesca. Spetterà pertanto all’indagine storico-materialistica, che metta in piena luce invece l’autentica fisionomia del poema, che per sua stessa incancellabile vocazione è e non vuole essere, nient’altro che «opus morale, sive ethica» superare l’illusoria impasse venuta a crearsi con questo falso dilemma di un Dante «faustianamente duplice» (secondo la famosa formula crociana), in pectore, dotato di due anime, l’una contro l’altra armata, quella di poeta e di teologo, strutturalmente quindi religioso, ma al tempo stesso liricamente umanista (che è appunto la vecchia soluzione idealistica, da De Sanctis a Fubini, se non oltre), da un lato, e di un Dante viceversa non più faustiano, dotato bensì finalmente di un’anima sola (il che di per sé è pur sacrosanto), ma che tuttavia in ultimo sarebbe – è persino appena credibile pensarlo – strutturalmente un poeta antilirico proprio perché religiosamente anti-umanista, che è proprio la nuova proposta fenomenologica: il cui esito estremo condurrebbe di fatto, come di fatto conduce, benché certo inconsapevolmente, ad una radicale falsificazione in senso reazionario della poesia, del linguaggio e dell’ideologia di Dante. Per quanto può riguardare allora la necessaria  «pars construens» del presente discorso, venendoci a trovare nell’evidente impossibilità pratica di offrire una lettura del XXVI capitolo della prima canzone, si comprende come per il momento sia indispensabile limitarsi di nuovo a riinviare ad alcune  prime sobrie ed acute notazioni della Ferrante, ricavate ancora una volta dal suo magistrale studio sulla visione politica della Commedia, dove facendo i conti fino in fondo con l’intero corpus narrativo dell’Alighieri – dalla «società corrotta» dell’Inferno, attraverso la «società in transizione» del Purgatorio, fino alla «società ideale»  del Paradiso — , liquidando così ogni falso dilemma di umanesimo e di religiosità, bensì porgendo estrema attenzione invece al nesso di ideologia e linguaggio, si mostra con la massima finezza di argomenti, come, in nome di un consapevole programma etico-borghese, nella figura di Ulisse il poeta (si badi: senza provare la benché minima emozione di una qualche lirica simpatia) condanni in modo impietoso un’elitaria avventura intellettuale oggettivamente rivolta (aggiungiamo noi: anche a dispetto delle migliori intenzioni  di chi la compie) a scopi che si rivelano antisociali.

Per essere conservate in forma persuasiva, e così superate nella prospettiva di una lettura materialistico-storica, anche le più convincenti ed energiche categorie suggerite e proposte dal commento fenomenologico dovranno pertanto venire se non altro riempite di un positivo contenuto storico-sociale, a cominciare da quell’efficacissima formula, ricorrente di continuo nelle pagine di Interpretazione di Malebolge e di Tre studi danteschi, che è l’«esplorazione del negativo», la quale acquisterà tuttavia vera validità solo nel momento esatto in cui si mostri come – in un meraviglioso e insuperabile rispecchiamento narrativo – la negatività morale condannata nell’Inferno non è nient’altro che la crisi anarchico feudale di un’intera nazione — ciò che risulta evidente intanto proprio dall’ampiezza stessa dell’ottavo cerchio, in cui la Ferrante ha individuato di recente la chiave esplicativa della struttura di tutta la cantica inaugurale –, ma la cui maggiore responsabilità, sia nella realtà oggettiva che all’interno del riflesso estetico offerto dalla Commedia, non può che ricadere sulla città di Firenze, prima e principale metropoli protocapitalistica, in quanto egemonizzata e governata da una borghesia medievale che, a causa precisamente del famoso adulterio stigmatizzato in Paradiso da Folchetto di Marsiglia (cioè, si noti: per strutturali legami di origine e natura finanziaria, i quali la costringono — contro i propri interessi di classe, privandola così di ogni possibile coscienza politica – entro gli angusti limiti di un blocco storico reazionario, edificato quindi sulla base di relazioni anche sovrastrutturali, ideologiche e politiche, con la Chiesa), si rivela in fine come impotente e incapace in tutto e per tutto di uscire  appunto dall’ambito – per dirla adesso nel più corretto linguaggio di Gramsci — economico-corporativo dello stato moderno, e per questo — nessun altro motivo – risulta a pieno titolo degna della storica e realistica condanna pronunciata da Dante, il quale non a caso porrà quasi a chiusura della prima canzone quel terribile incubo che è il ben noto racconto dell’ allucinante vicenda dello sventurato conte della Gherardesca e dei suoi figli, dove — in pagine di un realismo insuperabile – egli sa certamente creare il più inobliabile e potente simbolo dell’intera tragedia storica dell’innocente popolo italiano, affamato e dilaniato nel sangue da inutili e crudeli lotte intestine, sempre  lacerato e diviso in se stesso («e l’un l’altro si rode / di quei ch’ un muro e uno fossa serra»), che quindi né sa, né può, liquidare una volta per tutte l’anarchia feudale. «Non lo conosci l’Inferno di Dante, / quelle terribili terzine? Chi / il poeta ci ha rinchiuso, nessun / Dio lo può salvare»: riteniamo sia in questi versi del fraterno amico di Marx, il poeta democratico tedesco Heinrich Heine, dove viene colto senza la minima esitazione l’integrale significato etico-sociale che è presente e immanente alla poesia della Commedia — del tutto al di fuori dunque e ben al ai là del tipico fraintendimento romantico-idealistico, secondo cui l’Alighieri sarebbe dotato di una duplice anima, quella di poeta e quella di teologo – che una convinta esegesi materialistico-storica potrà e dovrà trovare sempre; come in memorabile epigrafe, la guida più sicura per una lettura in grado di decifrare il realismo del primo romanzo dell’età moderna, senonché ciò non può avvenire né nell’ambito di Interpretazione di Malebolge né tanto meno nel successivo Il realismo di Dante, dal momento che in entrambe le opere l’autore viene ad assumere viceversa quale ottica privilegiata, che si pretenderebbe appunto adeguata ad intendere il realismo insito nella narrazione dantesca, La terra desolata di Eliot e quindi soprattutto, addirittura in esclusiva, i Cantos del «non a caso fascisteggiante», anzi tout court fascista Pound, i quali fin dal primo volume vengono esibiti come il «miglior commento” disponibile, da anteporre nella confessata prospettiva del metodo fenomenologico (la cui principale illusione consiste – sarà bene sottolinearlo — nel credere  che basti voltare le spalle ai criteri puramente psicologici per uscire dall’ambito della coscienza) a «tante pagine di psicologistiche variazioni», venendo a condurre in tal modo la propria legittima aspirazione a un’interpretazione materialistico-storica in un vicolo cieco: per cui — in primo luogo — restano irrisolte le questioni decisive  (sul piano dell’ideologia, a pagina 12 de Il realismo di Dante, Dante è «reazionario» mentre a pagina 17 è «borghese», e sul piano del linguaggio , a pagina 18 la Commedia è un «romanzo teologico-politico», e viceversa a pagina 24 è un «romanzo storico»), e finalmente, sempre in tale prospettiva — benché inconsapevolmente — non può che insinuarsi di necessità l’idea secondo cui non sarebbe affatto vera la tesi del marxismo, per la quale, in determinate circostanze, uno scrittore può essere realista «nonostante» (come diceva Engels parlando di Balzac) la propria ideologia reazionaria, bensì sarebbe viceversa vera la tesi diametralmente opposta, quella secondo cui uno scrittore sarebbe realista proprio in virtù della sua ideologia reazionaria, considerata infatti — citiamo alla lettera. — «la condizione indispensabile».

Avvicinandoci ormai alla conclusione, occorre comunque avvertire come Interpretazione di Malebolge e Tre studi danteschi appaiono destinati a restare altresì come la guida e il documento più preziosi, a cui sempre bisognerà attingere e fare, costante riferimento, da parte almeno di chi intenda indugiare nell’analisi della produzione poetica dell’illustre dantista, dal momento che proprio in questi giovanili studi, come del resto negli altri successivi, vengono offerte con straordinaria generosità tutte le categorie critiche decisive, più adeguate e risolutive ad ogni sicuro intendimento della poetica che si annuncia per la prima volta in Laborintus, al punto che è fin lecito ritenersi autorizzati a vedervi (per dirla con quella medesima formula che lo studioso ha applicato alla Vita Nuova), con formidabile contrappasso, nient’altro che una «teoria della lirica»; di una lirica che nasce in effetti medievalmente atteggiata (a cominciare dal titolo stesso che rinvia appunto all’ars poetica di Everardo Alemanno), facendosi quindi largo – ci atteniamo alle precipue formule suggerite dal critico – per mezzo di una «segmentazione del discorso poetico», avanzando cioè in «accumulazione narrativa», «’per stazioni’ successive», sulla via di «strutture paraipotattiche, temporali-narrative» da una «zona liminare paranarrativa » verso le forme di un «paesaggio rettorico di rarissima maestria», in virtù di una «scrittura poetica non tonale, ma politonale, o insomma polistilistica », non senza «immagini di facile, provocante quotidianità, assunte, per eccezionale gusto di stile, entro il tessuto narrativo continuo», conservando altresì sulla pagina interpretativa stilemi e lessico della propria poesia (si prenda, per fare un esempio, pagina 322 di Interpretazione di Malebolge: «per la collocazione medesima in apertura (…) per il luogo presente (…) per irrimediabile smarrimento, per diffuse cadenze di morbida corruzione ecc. da confrontare con Laborintus numeri 11 e 12, nonché la «varia complicazione delle infermità penali», documento quasi di arte allusiva, rinviando a Laborintus numeri 6 e 15), e si potrebbe continuare magari all’infinito, fino a scoprire che la recentissima interpretazione del Purgatorio come la cantica in cui verrebbe «sviluppata a fondo, per opera di un Dante maturo, la critica, possiamo osare l’espressione, della vita estetica», per il suo confessato «kierkegaardismo» contribuirà a chiarire le basi ideologiche di Purgatorio de l’Inferno. Ma poiché secondo  il marxismo, i meriti storici «non si valutano secondo ciò che le personalità storiche non hanno dato rispetto alle esigenze contemporanee, ma secondo ciò che esse hanno dato di nuovo rispetto ai loro predecessori»,(Lenin), è evidente che chiunque si impegni in una lettura materialistico-storica dell’opera dantesca, non  potrà rinunciare a vedere, nell’autore di Interpretazione di Malebolge, non un «pessimo» padre — come ha voluto definirsi il poeta di Stracciafoglio – bensì finalmente, se è lecito far nostre immagini dantesche, un «dolcissimo padre»:
mio e de li altri miei miglior (…)